mercoledì 16 marzo 2016

Paris Uber Alles

Uno sciame di macchine nere. A Parigi, per la strada, ormai si vedono solo auto nere con finestrini oscurati. In una di queste, troverete di sicuro anche me.
Eravamo la generazione Erasmus: poco più che ventenni, siamo partiti per uno o due semestri da qualche parte in Europa a far finta di studiare. Siamo tornati a casa con qualche credito universitario da convalidare, una lingua in più nel CV e il cuore infranto da grandi amori che non hanno resistito alla distanza.
Siamo stati (e lo siamo ancora) la generazione Easyjet: dopo l’Erasmus, abbiamo mantenuto amici sparsi per l’Europa, e almeno una volta all’anno gli rendiamo visita. Londra, Berlino, Barcellona, Praga. Una volta all’anno, rifacciamo il nostro miniErasmus in giro per l’Europa.
Oggi siamo la generazione Uber. Trentenni, lavoratori a tempo indeterminato e precari, che amano vivere al di sopra delle loro possibilità, scortati da autisti geolocalizzati tramite smartphone. Troppo stanchi dopo una settimana intensa di lavoro per prendere la metro, troppo giovani per non uscire la sera. Chiamiamo il nostro Uber a qualsiasi ora, in qualsiasi angolo di questa città che ormai si muove solo in Uber. Con la pancia piena di cocktail a 15 euro e infusioni biologiche, giriamo per Parigi ammirandola da finestrini con vetri oscurati.
“Se vuole, nel portaoggetti ci sono bonbon e una bottiglietta d’acqua” “Merci, prendo dell’acqua” Io odio i bonbon: mia madre mi ha insegnato ad evitarli come la peste per non rischiare di farmi venire le carie ai denti. 
“Le va bene la musica?” “Ma certo, non ho preferenze…” Ma in cuor mio, spero che non attacchi con l’ennesima elettro-reggaeton da racaille. Stasera voglio solo musica tranquilla. Grazie a Dio, dalle casse di questa auto nera si sentono solo le note di una piacevole bossa nova.
Tremante per il freddo, all’uscita del locale, chiamo il mio Uber, la mia amica fa lo stesso. “A me dice 4 minuti, tu quanto devi aspettare?” “Tranquilla, io ne ho per 5 minuti. Tu sali in macchina, ti scrivo su WhatsApp per dirti quando parto pure io” Ogni amica monitora con attenzione i movimenti dell’altra. Non andiamo a dormire finché l’altra non conferma di essere entrata nel suo microappartamento. Da una parte all’altra dell’Europa, le vere amiche si preoccupano sempre che tu sia rientrata a casa senza problemi. “Te la senti di rientrare da sola? Vuoi dormire da me?” “No, grazie. Voglio solo infilarmi il mio pigiama.” Voglio solo rintanarmi nel mio letto e fissare il soffitto, se dovesse servire.
Il sabato pomeriggio facciamo la spesa in grandi supermercati, che tanto grandi non sono. Cerchiamo maniacalmente i prodotti più buoni, con marchio Bio o Made in Italy, sapendo che spenderemo una fortuna alla cassa. “Sì, ma io la pasta Carrefour non la mangio: si incolla ed è sempre scotta perché a ‘sti francesi piace così. Preferisco spendere qualche euro di più, ma mangiare un buon piatto di pasta ché mi sembra di stare a *casa mia*
Siamo capaci di bere litri di vodka, pur di non pensare alla pessima settimana che si è appena conclusa. E per lavarci la coscienza, ingeriamo pinte di tisane, sperando che ci depurino, quasi come se bevessimo l’acqua di Lourdes. “No, ma vuoi mettere le proprietà benefiche dello zenzero? Io domani me lo compro intero alla bottega biologica sotto casa!” “E che ci fai?” “E che ne so, ma fa tanto bene, eh…” Nel nostro carrello della spesa: pasta Rummo, tisane ayurvediche, quinoa e scorte di vino rosso. Al rientro da ogni trasferta in Italia, il nostro bagaglio esplode di pancetta e salsicce sottovuoto del salumiere del nostro piccolo paese d'origine. “Oh, sono rientrata dall’Italia: domenica si fa una cena da me con tante cose buone!” C’è chi dall’Italia si fa spedire le carote e gli spinaci dell’orto del papà, perché è tutta roba veramente naturale, roba sana. C'è chi dall'Italia si fa spedire stampe e lampade, per ricreare un angolo di una casa in cui è cresciuto tanti anni fa.
Saliamo in Uber e guardiamo dal finestrino, le luci sui monumenti ormai spente, la Ville Lumière che spegne la luce del comodino e va a dormire. La testa che fa male per la fatica della settimana e per quel cocktail in più che forse, se non lo bevevamo, era pure meglio.
Gli autisti Uber parlano sempre volentieri con i loro passeggeri, o almeno così ci fanno credere. Al rientro a Parigi dopo due giorni dagli attentati, la prima persona con cui parlai fu proprio un autista Uber che venne a prendermi in aeroporto. “Cosa è successo?” gli chiesi “Come state tutti quanti? Lei era per strada?” “Io stavo lavorando. Ho iniziato a far salire gente in macchina, a caso. Ho girato per la città cercando di riportare a casa la gente che raccattavo, in preda al panico. È stata la più brutta serata della mia vita. Della nostra vita.” Per un buon mese, con gli autisti Uber non abbiamo parlato di altro. “Io sono nero e musulmano. Sono un autista Uber perché mi piace lavorare di notte: soffro di insonnia. Questi sono dei pazzi, non siamo noi. Noi siamo persone normali. La mia ragazza è libera di fare quello che vuole, io non giudico nessuno. Io credo in Allah, loro non credono in nulla” E dalle casse dell’autoradio passa musica rock. 
Macchine nere ovunque a Parigi. In una di queste troverete sicuramente me o uno dei miei amici italo-parigini. Discutiamo di attentati, di cucina italiana, di calcio, di locali alla moda, di vacanze, di cibo biologico. 
“Ecco, è esattamente questa porta…” “Voilà, je vous souhaite une très bonne soirée, Mademoiselle!” E anche stasera mi sono fatta scarrozzare a casa. Adesso salgo, mi faccio una tisana ayurvedica, mi infilo il pigiama e spengo la mia lampada Made in Italy. La fattura della corsa in Uber la guardo domani.



2 commenti:

  1. Mi mancano i tuoi post... mi manca Parigi vista dai tuoi occhi. Torna presto

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    1. Alessandra, grazie mille per il tuo commento. Era da un po' che mi chiedevo se tornare a scrivere su questo blog oppure no. Prendo questo tuo pensiero come un'indicazione di quello che dovrei fare <3

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