martedì 24 novembre 2015

Flowers & Stones

Boulevard Voltaire è invaso dall'odore delle candele. Penso di non aver mai visto così tante candele accese tutte insieme.
Cammino con un mazzo di margherite nella mano destra, la sinistra in tasca. A Parigi è arrivato il freddo, quello vero. Improvvisamente, in una notte di novembre. Il freddo quello che ti sega in due, che ti fa tremare dentro. Che ti fa venire voglia di non uscire più di casa, di non mettere il naso fuori dal piumone.
Se passa un’ambulanza, io e il mio amico ci giriamo a guardare. Forse pronti a correre, a scappare da non osiamo pensare cosa. Lui ha lo zaino pieno di sassolini. Dice che nella religione ebraica, sulle tombe si lasciano dei sassolini. E lui ha portato un sacco di sassolini dalle spiagge dell’Adriatico. Io non lo so se un Dio esiste, ma credo che se c’è non è contento di vedere tutti questi sassolini sparsi per il mondo. Penso che preferirebbe vederli tranquilli mentre si fanno cullare dalle piccole onde dell’Adriatico.

Al Bataclan è tutto surreale. Sembra di essere in un film. Camionette delle polizia e teli bianchi coprono l’ingresso, ma da dietro spunta ancora il cartellone che annuncia il concerto degli Eagles of Death Metal. Tutto è fermo al 13 novembre. Di fronte allo storico locale, il boulevard è tagliato a metà da una “promenade” che corre per centinaia di metri che fa da spartitraffico e marciapiede per i pedoni che hanno voglia di passeggiare.
Fino a pochi giorni fa, attraversavamo quella promenade quasi ogni weekend per passare con disinvoltura da un bar all’altro del quartiere. Io sempre arrampicata su tacchi vertiginosi mentre cerco di non prendere storte alla mia caviglia destra, un amico che si rolla una sigaretta, un altro che cerca un angolo meno illuminato per pisciare, una ragazza parigina che passa con la sua tipica aria finto-trasandata, un barbone che dorme su una panchina in un sacco a pelo.

Ci pensi che se quella sera eravamo a Parigi, saremmo stati quasi sicuramente fra il 10e e l’11e arrondissement? Ci pensi che magari alle 21.30 saremmo stati fuori alla nostra pizzeria preferita che non accetta prenotazioni a fare la fila in attesa di un tavolo, proprio di fronte a Le Petit Cambodge e Le Carillon? Ci penso, ma non c’eravamo. E ringrazio quel Dio che non so se c’è davvero. 

Il mio amico piange davanti a La Belle Equipe. Mi chiede perché ci sparano. Io non lo so, non so nemmeno come sia fatto un kalashnikov. Non lo voglio sapere e vorrei che al mondo non lo sapesse nessuno com’è fatto un kalashnikov. Io vorrei che non esistessero i kalashnikov. 

In Rue Alibert, qualcuno ha aggiunto una -é con un pennarello al cartello blu in classico stile parigino. Adesso si chiama Rue Aliberté. Pochi centimetri sotto il cartello, nel muro, ci sono i buchi dei proiettili. È il muro di un ospedale e un uomo ci si avvicina infilandoci un dito e mostra a quella che credo sia sua figlia quanto sono larghi i buchi. Quei buchi hanno un diametro di qualche centimetro, ma sono delle voragini. 

Compro un po’ di cioccolata, che ne dici? Abbiamo bisogno di cioccolata. 

Sabato sera abbiamo mangiato, ballato e stappato una bottiglia di champagne. Abbiamo brindato alla vita, alle vite. A quelle che continueranno e a quelle che si sono spezzate mentre mangiavano, ballavano e bevevano. Sabato sera abbiamo brindato alla metro strapiena alle 8 di mattina, alle minigonne, ai baci che ci siamo dati al Bataclan, alle file davanti ai bistrot, ai venerdì sera parigini, londinesi, berlinesi, romani. Il prossimo venerdì sera farò il pieno di Ventolin per evitare una fastidiosa asma da nervosismo che ha deciso di farmi visita in questi ultimi giorni e prenderò la metro. Non so dove andrò, se nell’11e o altrove, ma ci andrò. Parleremo e balleremo più forte di prima perché è l’unica cosa che noi possiamo e sappiamo fare. Andremo allo stadio, canteremo, cammineremo per le strade di Parigi, faremo l’amore e avremo paura del nostro futuro. Perché è questo quello che sapevamo e sappiamo fare. Forse leggeremo più giornali di prima, parteciperemo a manifestazioni, saremo ancora più contrari di prima alle bombe e ai kalashnikov. 

Venerdì sera, ed ogni venerdì sera della nostra vita, saremo noi stessi.

Peace, Love & Death Metal



venerdì 9 ottobre 2015

The Wall-s

Ho mura bianche che in due mesi possono raccontare più cose di migliaia di pareti.
Ho mura che in due mesi hanno visto armadi, genitori, amici, risate e pianti.
Ho mura che in due mesi hanno ascoltato i Nirvana, Enya, i Joy Division, Jimi Hendrix e David Guetta.
Ho mura che fra due mesi saranno piene di pantere nere, poster di New York, bollette da pagare, biglietti di concerti.
Ho mura piene di felicità e malinconia.
Ho mura, maniglie e tende di docce.
Ho vasi di piante alle finestre e fiori bianchi.
Ho amiche, amici e famiglie.
Ho musica, libri e scarpe nascosti in 30 metri quadri.
Ho una camera che vale per due.
Ho amici che valgono cento.
Ho una famiglia che vale per mille.
Ho musica che vale una vita.
Ho vino rosso con bollini dorati.
Ho piatti da lavare e una pentola più grande del mio lavandino.
Ho una Torre a portata di vista ogni volta che la cerco.
Ho Parigi, ho Roma, ho la Francia e ho l’Italia.
Ho tutto ed ho niente.
Ho un pigiama da infilare e un’altra giornata da vivere.



mercoledì 8 aprile 2015

Volo AZ0332 Roma Fiumicino-Paris Charles De Gaulle

"Fasten seat belt while seated"
Non ho idea di quante volte avrò letto questo monito, ormai.

Prima del decollo, Alitalia trasmette Giovanni Allevi, Vueling i Nouvelle Vague, Easyjet opta per le nuove uscite discografiche del momento. Credo che una volta mi deliziò addirittura con i DeVotchKa. Ryanair, invece, non trasmette nulla. Prima del decollo di un volo Ryanair solo tanto rumore e conversazioni a voce troppo alta. Quando compro i miei biglietti online consultando le tariffe più basse su Skyscanner, anche questo influisce sulla scelta della compagnia che mi riaccompagnerà a Roma. O almeno, mi piace pensare che sia così.

Nella tratta aerea Parigi-Roma-Parigi, non tutto è come sembra. Il tipo in piedi davanti a me con tatuato un enorme scudetto della A.S. Roma sul bicipite, tira fuori dal suo zaino un libro di chimica in inglese. La coppia di cinquantenni un po' impacciati in tuta, non proviene da chissà quale paese della provincia pontina, ma dal 17ème arrondissement. Il tizio dalla folta chioma rossa con l'aria da bretone purosangue, togliendosi il maglione di lana, esclama: "Ammazza che callo quaddentro!" Il piacente steward che mi sorride un po' malizioso all'entrata, ha in realtà una vistosa fede all'anulare della mano sinistra. Al momento del decollo, decido comunque di seguire attentamente le sue istruzioni di salvataggio in caso di avaria: non serviranno a far sparire quell'anello, ma almeno saprò cosa fare se il gilet giallo non dovesse gonfiarsi da solo. È una magra consolazione, di questi tempi...

I R.E.M. cantano a ripetizione nelle mie orecchie "Walk unafraid" e io chiudo gli occhi, alzo la testa lasciando aderire completamente le spalle allo schienale del mio sedile, chiudo gli occhi e mi mordo il labbro. Ancora un aereo, ancora una tratta Parigi-Roma-Parigi. Ancora una volta mio padre che mi accompagna in aeroporto e che agita la mano per salutarmi mentre passo i controlli dei bagagli.

In volo mi piace guardarmi intorno, immaginando le storie degli altri passeggeri, cercando di farcirle sempre di un qualche retroscena melodrammatico. C'è la giovane famiglia italo-francese: mamma francese, papà italiano, hanno poco meno di 40 anni e hanno portato i due bambini di 7 e 4 anni a Roma a trovare i nonni paterni per Pasqua. Sembra la famiglia perfetta, ma i bambini non vedevano i loro nonni da ormai già due anni perché questi ultimi non vanno d'accordo con il loro papà. C'è la studentessa Erasmus di 23 anni con le Converse e la felpa col cappuccio che è rientrata per le due settimane di vacanze primaverili della sua università francese. Con l'occasione, ha pensato di rientrare a Roma per dare un esonero di Critica letteraria e portarsi avanti con gli esami da sostenere al rientro in Italia a luglio. E già che c'era ha anche riabbracciato il fidanzato al quale sta cercando di restare fedele, costi quel che costi. Ha un'aria serena, ma dentro di sé teme che il fidanzato la lascerà a luglio, pochi giorni prima dell'esame finale di Critica letteraria. C'è la coppia di trentenni della banlieue parigina che ha deciso di trascorrere il ponte di Pasqua a Roma, guida Routard alla mano e piccolo bagaglio a mano con lo stretto indispensabile per il weekend. Belli e sorridenti, riguardano le foto del soggiorno per tutta la durata del volo. Lui, in realtà, la tradisce con la sua ex-compagna di Ecole de commerce. C'è il tipo accanto a me che non appena la hostess lo acconsente, tira fuori il suo laptop. Vestito da giovane manager rampante, in realtà è presissimo dalle correzioni del suo paper in inglese di dottorato di ricerca in Biotecnologie (stando a quanto riesco a intravedere con discrezione dal mio posto). Lui, però, da grande avrebbe semplicemente voluto guidare le barche.
E poi ci sono io. Con il mio lunghissimo CV di voli Parigi-Roma-Parigi, il mio perenne raffreddore da sbalzi di temperatura da rientro in Italia, le cuffie Sony grandi come un casco di banane, le guance rigate dalle almeno 3 lacrime che scendono nonostante cerchi di trattenerle per tutta la durata del volo. Ogni volta spero che nessuno mi veda. Non vorrei che gli altri passeggeri immaginassero inverosimili storie strappalacrime anche su di me. Non vorrei che gli altri passeggeri pensassero che sono l'ennesima italiana all'estero a cui mancano la mamma e il papà, le lasagne al ragù, i pomeriggi al mare a Torvajanica con gli amici, le belle giornate di sole a far niente in giardino con i suoi cani.
"Tutto bene, Signorina?" Oh no, lo steward ha notato gli occhi lucidi. "Sì, sì! Solo un po' di allergia al polline..."

Inspira, espira. Rimetti la canzone daccapo prima dell'atterraggio. Torni a Parigi carica e pronta a un nuovo giorno di lavoro. Dannata allergia che ti viene ogni volta che rientri in Italia. Riesce sempre a farti lacrimare gli occhi.

"Signore e signori Alitalia vi dà il benvenuto a Paris Charles de Gaulle. La temperatura esterna è di 10 gradi centigradi, il tempo è [stranamente] buono. Vi ringraziamo per aver scelto di volare con noi e vi auguriamo un ottimo soggiorno a Parigi..."

Inspira, espira.



venerdì 13 marzo 2015

Eyjafjallajökull, il vulcano che conosceva il futuro.

Eyjafjallajökull ci aveva provato in tutti i modi a farmelo capire, ma all'epoca non avevo colto i suoi chiarissimi segnali dal Nord.

Passeggio per le vie dell'Ile de la Cité con mia madre. È un caldo e assolato pomeriggio di aprile 2010, e dopo numerose chiamate senza risposta, riesco finalmente a prendere la chiamata di mio padre sul mio all'epoca ipermoderno Samsung con touch screen e videocamera da ben 3 megapixel.
“Oh, ma ci riuscite a tornare a casa?”
“Ah pa', ma che dici?”
“Eh, c'è un vulcano in Islanda che ha eruttato e tutti i voli in Europa sono cancellati...”
“Ah pa', ma falla finita co' sti scherzi!”
“Vabbè, vedete un po' voi.”
Riattacco.
“Ma', c'è papà che dice che c'è un vulcano in Islanda che ha eruttato e che, a causa delle ceneri che volano in cielo, tutti i voli in Europa sono cancellati...”
“Tuo padre non sa più che inventarsi per fare degli scherzi.”
Dopo appena 5 minuti, i titoli dei giornali in un'edicola vicino alla cattedrale di Notre-Dame confermano quello che sembrava uno scherzo di un papà in cerca di attenzioni.
Non sto a spiegarvi come e perché, ma dopo interminabili momenti di panico, io e mia madre riusciamo finalmente a trovare il modo di rientrare a Roma. In un pullman con un gruppo di thailandesi, passando per la Svizzera, con soste pipì a Ginevra e Lugano. Tutto questo nella notte del mio ventiseiesimo compleanno.
Chi conosce un po' della mia vita, capirà l'ironia dell'annedoto.

Eyjafjallajökull me lo aveva detto e predetto: resterai a Parigi, passerai per la Svizzera, nella difficoltà ti divertirai da morire, mangerai baguette in un pullman, correrai nei corridoi del metrò Chatelet con una valigia in mano.
Un vulcano in Islanda aveva cercato di dirmelo in tutti modi: “Tu devi restare qua. E se proprio vorrai mettere il muso fuori da questa città che odora di Starbucks, fogne e croque monsieur, sarà per andare in Svizzera."
A poco sono valsi in giri in Corsica, i colloqui di lavoro a Roma, le candidature inviate in Portogallo. Temo davvero che all'epoca il vulcano avesse capito di me stessa molto di più di quanto non avessi potuto fare io.

Parigi non è una città perfetta. Piove 6 giorni su 7. Ogni volta che guardi per terra, per strada o nel metrò, vedi un topo. Nei bistrot si mangia raramente bene e io e miei amici combattiamo a fasi alterne con gastriti e disturbi intestinali. Le case sono piccole e vecchie. Gli stipendi sono sempre troppo bassi rispetto al costo medio della vita. I parigini sono rari e, quando ne conosci, non sono della specie più simpatica.
Il bello di Parigi, però, è che riesci, dopo ormai 3 anni che ci vivi, a sentirti allo stesso tempo sempre “parigina” e “straniera”.
Parigina perché conosci a memoria le sue 14 linee di metrò e, ad occhi chiusi, sapresti come andare da Saint-Germain-de-Près a Porte de la Villette con un solo cambio di linea, passando per Gare de l'Est. Parigina perché sai perfettamente dove andare se di giovedì sera cerchi un happy hour a base di birra con piattino di sauté di cozze gratis (e da qui potete compredere perché abbiamo innumerevoli problemi di gastrite, noi parigini acquisiti). Parigina perché sai perfettamente da quale parte della Senna stare in un incredibilmente assolato pomeriggio di metà marzo per godere per più tempo possibile del sole, prima che questi si vada a nascondere dietro il settimo piano di chissà quale palazzo haussmaniano.
Straniera perché, dopo 3 anni, ancora tutti ti chiedono in quale città in Italia sei nata (“Aaah Rome! C'est magnifique!”). Straniera perché ancora oggi tutti i francesi, subito dopo aver scoperto che sei italiana, ti chiedono la “vera ricetta” della carbonara. Straniera perché ogni mattina alle 9.30, la collega all'ingresso dell'open space dove lavori, ti saluta dicendoti “Hey, ciaò Laooooora Pausiniiii!”
Parigina e straniera allo stesso tempo perché scopri che riesci a gioire come una bambina davanti a una casa delle Barbie nuova di zecca perché la tua amica ha finalmente trovato un piccolo appartamento tutto per sé. Perché scopri un nuovo posto dove bere un ottimo cocktail a base di zenzero e rum. Perché quando a Parigi inizia ad arrivare la primavera “Mamma mia, c'est top quoi. Compro al volo una bottiglia di rosé e ci facciamo aperò sulla Senna, che ne dici?”

Eyjafjallajökull me lo aveva detto in un caldo e incredibilmente assolato pomeriggio di aprile: ti aspettano ancora tanti caldi e assolati pomeriggi a Parigi, non potrai scappare troppo facilmente. 


domenica 25 gennaio 2015

Three years in Paris

Giorni trascorsi da quel 24 gennaio 2012: 1097
Paia di stivaletti acquistate da quel 24 gennaio 2012: 15. È ufficialmente una patologia.
Tragitti in linea 8 con cambio a Opéra: non calcolati
Traslochi effettuati: 3. Nella migliore delle ipotesi, presto 4
Voli low cost presi per rientrare a “Casa”: infiniti
Litri di vino rosé bevuti sulle rive della Senna nei lunghi pomeriggi estivi parigini: almeno 50
Grandi amori finiti tragicamente: molti, ma non abbastanza da perdere ogni speranza
Viaggi in ambulanza verso l'ospedale circondata da aitanti pompieri: 1
Chilometri percorsi passeggiando per le strade di Parigi: mai troppi
Buoni motivi per lasciare Parigi: molti
Buoni motivi per restare a Parigi: comunque molti di più dei buoni motivi per lasciare Parigi

Sono 3 anni. Dovevano essere 3 mesi in principio. Amen, io non li seguo mai i piani.
3 anni di Parigi. 3 anni di domande su chi sono, cosa faccio, dove sto andando, perché sono qui. Le risposte a queste domande iniziano a definirsi sempre più chiaramente, grazie a Dio. E grazie a Dio, di domande ne subentrano delle nuove. Non sarebbe una vita stimolante senza domande.

Sono 3 anni di Parigi. 3 anni da quella caduta nei corridoi della metro a Denfert-Rochereau spingendo la mia valigia più grande. Quella che è nascosta con grande cura dietro le tende della mia camera. Perché ogni volta che la rivedo ricomincio a farmi le stesse domande alle quali credo di aver iniziato a trovare delle risposte. Quella valigia che non voglio vedere perché ogni volta che l'ho usata, è stato per dare un cambiamento drastico alla mia vita. E io di cambiamenti drastici dettati da una capiente valigia da 40 kg, per ora non ne voglio più.

Quando i francesi mi chiedono se sto bene a Parigi – et sinon, Paris ça te plaît? - ho ricominciato a dire di sì. Sorridendo.
Questa è la città che mi si è aperta davanti agli occhi poco per volta. Appena arrivata, notavo solo le sue brutture. La miseria, la sporcizia, i cattivi odori, la pioggia, la difficoltà di trovare un alloggio. Era Parigi che mi stava studiando. Voleva vedere quanto volessi misurarmi con lei. Quando ha capito che potevamo diventare buone amiche, ha deciso di sciogliersi i capelli e lasciarsi andare. La pioggia ha lasciato il posto al sole. Il Canal de l'Ourcq si è scongelato e ha iniziato ad invitarmi per l'aperitivo alle 19. Le passeggiate in solitaria si sono trasformate in un mosaico di facce familiari e amiche. Le cene davanti ai telefilm in streaming, sono diventate calorose cene in chiassosi bistrot. Le strette di mano di presentazione, sono diventate gli abbracci di cari amici.

Esattamente un anno fa, però, io e Parigi abbiamo attraversato un periodo difficile. Iniziavamo ad essere stanche l'una dell'altra. Io mi guardavo intorno nell'ipotesi di trovare una nuova città amica. L'ipotesi, però, è durata molto poco. Ci siamo tenute il broncio per un po', ma poi ci siamo messe a ridere e adesso siamo ancora più amiche di prima.

Parigi amica, sempre forte e fiera. Ultimamente, però, ha mostrato il suo volto più fragile. Ancora illuminata a feste natalizie, Parigi si è spezzata. Un blackout intervallato da spari. I volti delle persone impaurite. I colleghi in panico per i figli a scuola a Montrouge. Gli amici a pochi passi da Porte de Vincennes. Le strade vuote. I militari con i mitra in mano nella metro, nelle stazioni e vicino alle scuole. No, non è la guerra. Ci sono realtà ben più tragiche di questa, lo sappiamo tutti. Ma Parigi si è spezzata per un attimo. Ed è proprio nel momento in cui scopri le fragilità di un'amica che ti rendi conto del bene che le vuoi. Di quanto vuoi rimanerle accanto. Che ti rendi conto che speri che di anni insieme ce ne saranno ancora tanti.

- Et sinon, Paris ça te plaît?
Sorride e guarda il boulevard dalla finestra del bistrot. - J'adore.



Women // Teachers

"E' da tanto che non scrivi, come mai?"  E' una domanda che mi è stata posta ogni tanto nell’ultimo paio di anni. Semplic...