domenica 27 maggio 2018

Women // Teachers

"E' da tanto che non scrivi, come mai?" 
E' una domanda che mi è stata posta ogni tanto nell’ultimo paio di anni. Semplicemente pensavo di non avere più niente da dire. 
Eppure ho visto tante cose, ho osservato tanto, ho maturato molte idee, credo di aver imparato davvero molto. Principalmente, in quest'ultimo periodo, ho imparato tanto dalle Donne.
E forse, qualcosa da dire, grazie a queste Donne, adesso ce l'ho.

Non fraintendetemi. Ho visto e osservato anche gli Uomini. Ho studiato anche gli Uomini. Ho interagito, parlato, scambiato e discusso con tanti Uomini. E mamma mia, quanto mi sono simpatici gli Uomini! Ma forse quello che ho fatto con maggior interesse, è stato imparare dalle Donne.

Nell'ultimo periodo ho avuto la fortuna di incrociare tanti e molteplici tipi di Donne. Ho avuto modo di interagire con tanti universi femminili. E, soprattutto grazie a questi universi, ho avuto modo di crescere. Solo io e Dio (se ne esiste davvero uno) sappiamo quanto sia cresciuta grazie a questi universi.

Ho conosciuto Donne disposte a mollare tutto, pur di inseguire un sogno più grande di loro stesse. Sogno che alla fine si è realizzato.
Ho visto Donne pronte ad attraversare la città alle 2 di notte, pur di consolare altre Donne. 
Ho conosciuto Donne pronte ad essere le madri dei propri uomini, per poi voltare loro le spalle nel momento in cui questi ultimi le stavano inghiottendo.
Ho parlato con Donne disposte a qualsiasi cosa pur di proteggere una piccola Vita che stava crescendo nella loro pancia.
Ho conosciuto Donne che zoppicano e non si lamentano di un lavoro che le tiene in piedi mediamente 12 ore al giorno.
Ho conosciuto Donne pronte a farsi collante di famiglie in crisi.
Ho conosciuto Donne disposte a rimanere in un ufficio fino alle 3 di notte, pur di far bene il loro lavoro.
Ho visto piccole Donne dal viso di bambine, entrare in stanze piene di notai che parlavano burocratese per avere un posto da chiamare "Casa".
Ho visto Donne abbracciare barboni in lacrime che urlavano in vagoni del metrò, mentre uomini alti quasi 2 metri avevano paura anche solo di sfiorare questi barboni.
Ho parlato con Donne che non sono disposte a scendere a compromessi pur di avere un uomo al loro fianco, ma che sono in grado di comprendere le mille sfumature che formano una persona.
Ho conosciuto Donne che si vestono solo di nero, ma pensano in rosa.
Ho visto Donne che sanno sempre cosa dire sedute a un tavolo insieme ad uomini con lavori più importanti, stipendi più ricchi, posizioni più elevate, ma che navigano nei dubbi.
Ho visto Donne cantare "If you wanna be my lover..." a squarciagola nel vagone di un metrò francese, fregandosene di quanto potessero apparire ridicole agli occhi degli uomini che le circondavano.
Ho conosciuto Donne che hanno preso un treno con due borse e un biglietto di seconda classe, pur di dare una vita migliore al loro bambino.
Ho conosciuto Donne che sono scappate di notte da uomini che le inseguivano.
Ho conosciuto Donne che si sono ritrovate in situazioni poco piacevoli perché hanno osato rispondere a uomini che le hanno chiamate "Troie" solo perché stavano facendo una passeggiata dopo il tramonto.
Ho conosciuto Donne in grado di organizzare traslochi in tempi lampo pur di dare una svolta alla loro vita. E ho conosciuto Donne con bicipiti più forti di un intero team di traslocatori.
Ho conosciuto Donne pronte a mettere in gioco tutto, pur di inseguire quello che le faceva stare bene e per cui avrebbero puntato tutte le fiche al casinò: l'Amore.
Ho conosciuto Donne in miniatura che volevano indossare i vestiti delle loro mamme, ma giocare con le macchinine.
Ho conosciuto Donne pronte a schierarsi mano nella mano, pur di difendere un'altra Donna dal suo peggior nemico: se stessa.
Ho conosciuto Donne che combattono ogni giorno per guardarsi allo specchio e amarne il riflesso.
Ho conosciuto Donne che non si ameranno mai e Donne che, costi quel che costi, non finiranno mai di amarsi. 
Ho conosciuto Donne in grado di montare mobili e Donne che non sono in grado nemmeno di cambiare una lampadina, ma questo non definisce il loro grado di emancipazione. 
Ho conosciuto piccole Donne che si confrontano con giganti. Ed escono da quei confronti sorridendo.
Ho conosciuto Donne che sono al tempo stesso nonne presenti e lavoratrici instancabili.
Ho conosciuto Donne che sedute a un tavolo di un ristorante non hanno paura di parlare di anticoncezionali, ovaie, ginecologi ed orgasmi. 
Ho conosciuto Donne che sono mamme che, oltre a cucinare polpette deliziose, sanno essere al tempo stesso severe e dolci. Basta saper leggere il loro sguardo.
Ho conosciuto Donne piccole piccole con cuori e teste grandi grandi.
Ho conosciuto piccole Donne che stanno diventando grandi.

Ho conosciuto Amiche, Nemiche, Mamme, Sorelle.

Ne ho conosciute tante di Donne in questi ultimi anni e solo io e Dio (se ne esiste davvero uno) sappiamo quanto ancora potrò crescere grazie alle Donne. 





mercoledì 16 marzo 2016

Paris Uber Alles

Uno sciame di macchine nere. A Parigi, per la strada, ormai si vedono solo auto nere con finestrini oscurati. In una di queste, troverete di sicuro anche me.
Eravamo la generazione Erasmus: poco più che ventenni, siamo partiti per uno o due semestri da qualche parte in Europa a far finta di studiare. Siamo tornati a casa con qualche credito universitario da convalidare, una lingua in più nel CV e il cuore infranto da grandi amori che non hanno resistito alla distanza.
Siamo stati (e lo siamo ancora) la generazione Easyjet: dopo l’Erasmus, abbiamo mantenuto amici sparsi per l’Europa, e almeno una volta all’anno gli rendiamo visita. Londra, Berlino, Barcellona, Praga. Una volta all’anno, rifacciamo il nostro miniErasmus in giro per l’Europa.
Oggi siamo la generazione Uber. Trentenni, lavoratori a tempo indeterminato e precari, che amano vivere al di sopra delle loro possibilità, scortati da autisti geolocalizzati tramite smartphone. Troppo stanchi dopo una settimana intensa di lavoro per prendere la metro, troppo giovani per non uscire la sera. Chiamiamo il nostro Uber a qualsiasi ora, in qualsiasi angolo di questa città che ormai si muove solo in Uber. Con la pancia piena di cocktail a 15 euro e infusioni biologiche, giriamo per Parigi ammirandola da finestrini con vetri oscurati.
“Se vuole, nel portaoggetti ci sono bonbon e una bottiglietta d’acqua” “Merci, prendo dell’acqua” Io odio i bonbon: mia madre mi ha insegnato ad evitarli come la peste per non rischiare di farmi venire le carie ai denti. 
“Le va bene la musica?” “Ma certo, non ho preferenze…” Ma in cuor mio, spero che non attacchi con l’ennesima elettro-reggaeton da racaille. Stasera voglio solo musica tranquilla. Grazie a Dio, dalle casse di questa auto nera si sentono solo le note di una piacevole bossa nova.
Tremante per il freddo, all’uscita del locale, chiamo il mio Uber, la mia amica fa lo stesso. “A me dice 4 minuti, tu quanto devi aspettare?” “Tranquilla, io ne ho per 5 minuti. Tu sali in macchina, ti scrivo su WhatsApp per dirti quando parto pure io” Ogni amica monitora con attenzione i movimenti dell’altra. Non andiamo a dormire finché l’altra non conferma di essere entrata nel suo microappartamento. Da una parte all’altra dell’Europa, le vere amiche si preoccupano sempre che tu sia rientrata a casa senza problemi. “Te la senti di rientrare da sola? Vuoi dormire da me?” “No, grazie. Voglio solo infilarmi il mio pigiama.” Voglio solo rintanarmi nel mio letto e fissare il soffitto, se dovesse servire.
Il sabato pomeriggio facciamo la spesa in grandi supermercati, che tanto grandi non sono. Cerchiamo maniacalmente i prodotti più buoni, con marchio Bio o Made in Italy, sapendo che spenderemo una fortuna alla cassa. “Sì, ma io la pasta Carrefour non la mangio: si incolla ed è sempre scotta perché a ‘sti francesi piace così. Preferisco spendere qualche euro di più, ma mangiare un buon piatto di pasta ché mi sembra di stare a *casa mia*
Siamo capaci di bere litri di vodka, pur di non pensare alla pessima settimana che si è appena conclusa. E per lavarci la coscienza, ingeriamo pinte di tisane, sperando che ci depurino, quasi come se bevessimo l’acqua di Lourdes. “No, ma vuoi mettere le proprietà benefiche dello zenzero? Io domani me lo compro intero alla bottega biologica sotto casa!” “E che ci fai?” “E che ne so, ma fa tanto bene, eh…” Nel nostro carrello della spesa: pasta Rummo, tisane ayurvediche, quinoa e scorte di vino rosso. Al rientro da ogni trasferta in Italia, il nostro bagaglio esplode di pancetta e salsicce sottovuoto del salumiere del nostro piccolo paese d'origine. “Oh, sono rientrata dall’Italia: domenica si fa una cena da me con tante cose buone!” C’è chi dall’Italia si fa spedire le carote e gli spinaci dell’orto del papà, perché è tutta roba veramente naturale, roba sana. C'è chi dall'Italia si fa spedire stampe e lampade, per ricreare un angolo di una casa in cui è cresciuto tanti anni fa.
Saliamo in Uber e guardiamo dal finestrino, le luci sui monumenti ormai spente, la Ville Lumière che spegne la luce del comodino e va a dormire. La testa che fa male per la fatica della settimana e per quel cocktail in più che forse, se non lo bevevamo, era pure meglio.
Gli autisti Uber parlano sempre volentieri con i loro passeggeri, o almeno così ci fanno credere. Al rientro a Parigi dopo due giorni dagli attentati, la prima persona con cui parlai fu proprio un autista Uber che venne a prendermi in aeroporto. “Cosa è successo?” gli chiesi “Come state tutti quanti? Lei era per strada?” “Io stavo lavorando. Ho iniziato a far salire gente in macchina, a caso. Ho girato per la città cercando di riportare a casa la gente che raccattavo, in preda al panico. È stata la più brutta serata della mia vita. Della nostra vita.” Per un buon mese, con gli autisti Uber non abbiamo parlato di altro. “Io sono nero e musulmano. Sono un autista Uber perché mi piace lavorare di notte: soffro di insonnia. Questi sono dei pazzi, non siamo noi. Noi siamo persone normali. La mia ragazza è libera di fare quello che vuole, io non giudico nessuno. Io credo in Allah, loro non credono in nulla” E dalle casse dell’autoradio passa musica rock. 
Macchine nere ovunque a Parigi. In una di queste troverete sicuramente me o uno dei miei amici italo-parigini. Discutiamo di attentati, di cucina italiana, di calcio, di locali alla moda, di vacanze, di cibo biologico. 
“Ecco, è esattamente questa porta…” “Voilà, je vous souhaite une très bonne soirée, Mademoiselle!” E anche stasera mi sono fatta scarrozzare a casa. Adesso salgo, mi faccio una tisana ayurvedica, mi infilo il pigiama e spengo la mia lampada Made in Italy. La fattura della corsa in Uber la guardo domani.



martedì 2 febbraio 2016

Et moi, j'adore ça...

C’è un momento in cui non ti chiedono più “E quando torni in Italia?”. Un momento in cui ti chiedono se sei del Sud, prima di capire che il tuo è un accento italiano. Un momento in cui ti rendi conto che conosci Parigi meglio di tanti Parigini. Che sei stata in molti più locali parigini di tanti Parigini. Un momento in cui preferisci restare a casa ad annusare candele profumate, piuttosto che uscire perché hai scoperto che ogni tanto è bello restare a casa ad annusare candele.
Hai quasi solo amici italiani, ma l’italiano che parli con loro non è un vero e proprio Italiano, è uno strano mix dai sapori italo-francesi: “Ma écoute, ça te dit di andare a mangiare un truc insieme? Conosco un résto sympa nel Decimo, ci sono stata con una collègue la scorsa semaine. Mi sono régalée…” 
Le cene da te sono all’insegna della pasta all'amatriciana, ma con accompagnamento di vino Saint-Emilion e formaggio di chèvre. 
Gli amici che ti vengono a trovare dall’Italia ti chiedono di andare in Normandia perché li hai ormai convinti che sia il paradiso terrestre nei toni del grigio e del verde. 
Piovosa, fredda, sporca, Parigi continua a lasciarti senza respiro, continua ad accoglierti nel Bon Marché, nel piccolo negozio di un fioraio del Quindicesimo, nella vineria del quartiere. 
Parigi ti ha insegnato a mangiare escargots, foie gras, a bere vino rosso e riconoscere quando è buono. 
Parigi ti ha insegnato a innamorarti ogni giorno, poco importa se di un uomo, uno scorcio, una canzone, un sorriso. 
Parigi è radiosa quando al sabato mattina ti svegli nel tuo monolocale e fuori c’è il sole. Non abbiamo persiane, ci ubriachiamo di sole a Parigi, ci piace intravedere i dirimpettai da dietro le sottili tende dei nostri appartamenti. “Ma sai che quelli di fronte ti vedono quando passi nuda davanti alle finestre?” “Je m’en fous, j’ai envie de soleil moi…”
Parigi ti ha insegnato a non aver paura dei tuoi 30 anni perché avere 30 anni a Parigi è magnifico: è la consapevolezza, la disinvoltura nell’indossarli ogni giorno i tuoi 30 anni, nel sentirli nel rossetto che decidi di mettere una sera, nell’uscire a fare la spesa alle 21 al Franprix all’angolo perché prima non hai avuto tempo. 
Parigi è le grandi aspirazioni, le grandi mire, le grandi ambizioni. Voglio fare carriera, voglio guadagnare di più, voglio una casa più grande nel Settimo Arrondissement arredata unicamente con pezzi di design, voglio fare il giro del mondo.
Ma Parigi è anche la gioia delle piccole cose: un aperitivo con un’amica a fine giornata, una corsa agli Champs de Mars, il profumo di una Galette des Rois calda, un biglietto di un concerto trovato all’ultimo minuto, un piccolo graffiti che compare sotto casa tua che recita semplicemente “Liberté”, l'arrivo della primavera, un pomeriggio in un giardino nascosto.
Parigi ti ha insegnato ad essere contenta di dove sei e ad essere ancora più contenta del posto da cui vieni: dei sapori della cucina della tua mamma, dei viaggi in macchina con il tuo papà, della cioccolata mangiata con tuo fratello, delle feste dei tuoi cani. 
Parigi è il bianco e il nero, è il pizzo e la pelle, è il dolce e l’amaro, è la gioia e la tristezza, è il digiuno e la sazietà, è un luogo e uno stato mentale.
Parigi ti allontana e ti riavvicina a fasi alterne. 

Parigi è la miglior seduttrice del mondo. Parigi è una stronza.




martedì 24 novembre 2015

Flowers & Stones

Boulevard Voltaire è invaso dall'odore delle candele. Penso di non aver mai visto così tante candele accese tutte insieme.
Cammino con un mazzo di margherite nella mano destra, la sinistra in tasca. A Parigi è arrivato il freddo, quello vero. Improvvisamente, in una notte di novembre. Il freddo quello che ti sega in due, che ti fa tremare dentro. Che ti fa venire voglia di non uscire più di casa, di non mettere il naso fuori dal piumone.
Se passa un’ambulanza, io e il mio amico ci giriamo a guardare. Forse pronti a correre, a scappare da non osiamo pensare cosa. Lui ha lo zaino pieno di sassolini. Dice che nella religione ebraica, sulle tombe si lasciano dei sassolini. E lui ha portato un sacco di sassolini dalle spiagge dell’Adriatico. Io non lo so se un Dio esiste, ma credo che se c’è non è contento di vedere tutti questi sassolini sparsi per il mondo. Penso che preferirebbe vederli tranquilli mentre si fanno cullare dalle piccole onde dell’Adriatico.

Al Bataclan è tutto surreale. Sembra di essere in un film. Camionette delle polizia e teli bianchi coprono l’ingresso, ma da dietro spunta ancora il cartellone che annuncia il concerto degli Eagles of Death Metal. Tutto è fermo al 13 novembre. Di fronte allo storico locale, il boulevard è tagliato a metà da una “promenade” che corre per centinaia di metri che fa da spartitraffico e marciapiede per i pedoni che hanno voglia di passeggiare.
Fino a pochi giorni fa, attraversavamo quella promenade quasi ogni weekend per passare con disinvoltura da un bar all’altro del quartiere. Io sempre arrampicata su tacchi vertiginosi mentre cerco di non prendere storte alla mia caviglia destra, un amico che si rolla una sigaretta, un altro che cerca un angolo meno illuminato per pisciare, una ragazza parigina che passa con la sua tipica aria finto-trasandata, un barbone che dorme su una panchina in un sacco a pelo.

Ci pensi che se quella sera eravamo a Parigi, saremmo stati quasi sicuramente fra il 10e e l’11e arrondissement? Ci pensi che magari alle 21.30 saremmo stati fuori alla nostra pizzeria preferita che non accetta prenotazioni a fare la fila in attesa di un tavolo, proprio di fronte a Le Petit Cambodge e Le Carillon? Ci penso, ma non c’eravamo. E ringrazio quel Dio che non so se c’è davvero. 

Il mio amico piange davanti a La Belle Equipe. Mi chiede perché ci sparano. Io non lo so, non so nemmeno come sia fatto un kalashnikov. Non lo voglio sapere e vorrei che al mondo non lo sapesse nessuno com’è fatto un kalashnikov. Io vorrei che non esistessero i kalashnikov. 

In Rue Alibert, qualcuno ha aggiunto una -é con un pennarello al cartello blu in classico stile parigino. Adesso si chiama Rue Aliberté. Pochi centimetri sotto il cartello, nel muro, ci sono i buchi dei proiettili. È il muro di un ospedale e un uomo ci si avvicina infilandoci un dito e mostra a quella che credo sia sua figlia quanto sono larghi i buchi. Quei buchi hanno un diametro di qualche centimetro, ma sono delle voragini. 

Compro un po’ di cioccolata, che ne dici? Abbiamo bisogno di cioccolata. 

Sabato sera abbiamo mangiato, ballato e stappato una bottiglia di champagne. Abbiamo brindato alla vita, alle vite. A quelle che continueranno e a quelle che si sono spezzate mentre mangiavano, ballavano e bevevano. Sabato sera abbiamo brindato alla metro strapiena alle 8 di mattina, alle minigonne, ai baci che ci siamo dati al Bataclan, alle file davanti ai bistrot, ai venerdì sera parigini, londinesi, berlinesi, romani. Il prossimo venerdì sera farò il pieno di Ventolin per evitare una fastidiosa asma da nervosismo che ha deciso di farmi visita in questi ultimi giorni e prenderò la metro. Non so dove andrò, se nell’11e o altrove, ma ci andrò. Parleremo e balleremo più forte di prima perché è l’unica cosa che noi possiamo e sappiamo fare. Andremo allo stadio, canteremo, cammineremo per le strade di Parigi, faremo l’amore e avremo paura del nostro futuro. Perché è questo quello che sapevamo e sappiamo fare. Forse leggeremo più giornali di prima, parteciperemo a manifestazioni, saremo ancora più contrari di prima alle bombe e ai kalashnikov. 

Venerdì sera, ed ogni venerdì sera della nostra vita, saremo noi stessi.

Peace, Love & Death Metal



venerdì 9 ottobre 2015

The Wall-s

Ho mura bianche che in due mesi possono raccontare più cose di migliaia di pareti.
Ho mura che in due mesi hanno visto armadi, genitori, amici, risate e pianti.
Ho mura che in due mesi hanno ascoltato i Nirvana, Enya, i Joy Division, Jimi Hendrix e David Guetta.
Ho mura che fra due mesi saranno piene di pantere nere, poster di New York, bollette da pagare, biglietti di concerti.
Ho mura piene di felicità e malinconia.
Ho mura, maniglie e tende di docce.
Ho vasi di piante alle finestre e fiori bianchi.
Ho amiche, amici e famiglie.
Ho musica, libri e scarpe nascosti in 30 metri quadri.
Ho una camera che vale per due.
Ho amici che valgono cento.
Ho una famiglia che vale per mille.
Ho musica che vale una vita.
Ho vino rosso con bollini dorati.
Ho piatti da lavare e una pentola più grande del mio lavandino.
Ho una Torre a portata di vista ogni volta che la cerco.
Ho Parigi, ho Roma, ho la Francia e ho l’Italia.
Ho tutto ed ho niente.
Ho un pigiama da infilare e un’altra giornata da vivere.



mercoledì 8 aprile 2015

Volo AZ0332 Roma Fiumicino-Paris Charles De Gaulle

"Fasten seat belt while seated"
Non ho idea di quante volte avrò letto questo monito, ormai.

Prima del decollo, Alitalia trasmette Giovanni Allevi, Vueling i Nouvelle Vague, Easyjet opta per le nuove uscite discografiche del momento. Credo che una volta mi deliziò addirittura con i DeVotchKa. Ryanair, invece, non trasmette nulla. Prima del decollo di un volo Ryanair solo tanto rumore e conversazioni a voce troppo alta. Quando compro i miei biglietti online consultando le tariffe più basse su Skyscanner, anche questo influisce sulla scelta della compagnia che mi riaccompagnerà a Roma. O almeno, mi piace pensare che sia così.

Nella tratta aerea Parigi-Roma-Parigi, non tutto è come sembra. Il tipo in piedi davanti a me con tatuato un enorme scudetto della A.S. Roma sul bicipite, tira fuori dal suo zaino un libro di chimica in inglese. La coppia di cinquantenni un po' impacciati in tuta, non proviene da chissà quale paese della provincia pontina, ma dal 17ème arrondissement. Il tizio dalla folta chioma rossa con l'aria da bretone purosangue, togliendosi il maglione di lana, esclama: "Ammazza che callo quaddentro!" Il piacente steward che mi sorride un po' malizioso all'entrata, ha in realtà una vistosa fede all'anulare della mano sinistra. Al momento del decollo, decido comunque di seguire attentamente le sue istruzioni di salvataggio in caso di avaria: non serviranno a far sparire quell'anello, ma almeno saprò cosa fare se il gilet giallo non dovesse gonfiarsi da solo. È una magra consolazione, di questi tempi...

I R.E.M. cantano a ripetizione nelle mie orecchie "Walk unafraid" e io chiudo gli occhi, alzo la testa lasciando aderire completamente le spalle allo schienale del mio sedile, chiudo gli occhi e mi mordo il labbro. Ancora un aereo, ancora una tratta Parigi-Roma-Parigi. Ancora una volta mio padre che mi accompagna in aeroporto e che agita la mano per salutarmi mentre passo i controlli dei bagagli.

In volo mi piace guardarmi intorno, immaginando le storie degli altri passeggeri, cercando di farcirle sempre di un qualche retroscena melodrammatico. C'è la giovane famiglia italo-francese: mamma francese, papà italiano, hanno poco meno di 40 anni e hanno portato i due bambini di 7 e 4 anni a Roma a trovare i nonni paterni per Pasqua. Sembra la famiglia perfetta, ma i bambini non vedevano i loro nonni da ormai già due anni perché questi ultimi non vanno d'accordo con il loro papà. C'è la studentessa Erasmus di 23 anni con le Converse e la felpa col cappuccio che è rientrata per le due settimane di vacanze primaverili della sua università francese. Con l'occasione, ha pensato di rientrare a Roma per dare un esonero di Critica letteraria e portarsi avanti con gli esami da sostenere al rientro in Italia a luglio. E già che c'era ha anche riabbracciato il fidanzato al quale sta cercando di restare fedele, costi quel che costi. Ha un'aria serena, ma dentro di sé teme che il fidanzato la lascerà a luglio, pochi giorni prima dell'esame finale di Critica letteraria. C'è la coppia di trentenni della banlieue parigina che ha deciso di trascorrere il ponte di Pasqua a Roma, guida Routard alla mano e piccolo bagaglio a mano con lo stretto indispensabile per il weekend. Belli e sorridenti, riguardano le foto del soggiorno per tutta la durata del volo. Lui, in realtà, la tradisce con la sua ex-compagna di Ecole de commerce. C'è il tipo accanto a me che non appena la hostess lo acconsente, tira fuori il suo laptop. Vestito da giovane manager rampante, in realtà è presissimo dalle correzioni del suo paper in inglese di dottorato di ricerca in Biotecnologie (stando a quanto riesco a intravedere con discrezione dal mio posto). Lui, però, da grande avrebbe semplicemente voluto guidare le barche.
E poi ci sono io. Con il mio lunghissimo CV di voli Parigi-Roma-Parigi, il mio perenne raffreddore da sbalzi di temperatura da rientro in Italia, le cuffie Sony grandi come un casco di banane, le guance rigate dalle almeno 3 lacrime che scendono nonostante cerchi di trattenerle per tutta la durata del volo. Ogni volta spero che nessuno mi veda. Non vorrei che gli altri passeggeri immaginassero inverosimili storie strappalacrime anche su di me. Non vorrei che gli altri passeggeri pensassero che sono l'ennesima italiana all'estero a cui mancano la mamma e il papà, le lasagne al ragù, i pomeriggi al mare a Torvajanica con gli amici, le belle giornate di sole a far niente in giardino con i suoi cani.
"Tutto bene, Signorina?" Oh no, lo steward ha notato gli occhi lucidi. "Sì, sì! Solo un po' di allergia al polline..."

Inspira, espira. Rimetti la canzone daccapo prima dell'atterraggio. Torni a Parigi carica e pronta a un nuovo giorno di lavoro. Dannata allergia che ti viene ogni volta che rientri in Italia. Riesce sempre a farti lacrimare gli occhi.

"Signore e signori Alitalia vi dà il benvenuto a Paris Charles de Gaulle. La temperatura esterna è di 10 gradi centigradi, il tempo è [stranamente] buono. Vi ringraziamo per aver scelto di volare con noi e vi auguriamo un ottimo soggiorno a Parigi..."

Inspira, espira.



venerdì 13 marzo 2015

Eyjafjallajökull, il vulcano che conosceva il futuro.

Eyjafjallajökull ci aveva provato in tutti i modi a farmelo capire, ma all'epoca non avevo colto i suoi chiarissimi segnali dal Nord.

Passeggio per le vie dell'Ile de la Cité con mia madre. È un caldo e assolato pomeriggio di aprile 2010, e dopo numerose chiamate senza risposta, riesco finalmente a prendere la chiamata di mio padre sul mio all'epoca ipermoderno Samsung con touch screen e videocamera da ben 3 megapixel.
“Oh, ma ci riuscite a tornare a casa?”
“Ah pa', ma che dici?”
“Eh, c'è un vulcano in Islanda che ha eruttato e tutti i voli in Europa sono cancellati...”
“Ah pa', ma falla finita co' sti scherzi!”
“Vabbè, vedete un po' voi.”
Riattacco.
“Ma', c'è papà che dice che c'è un vulcano in Islanda che ha eruttato e che, a causa delle ceneri che volano in cielo, tutti i voli in Europa sono cancellati...”
“Tuo padre non sa più che inventarsi per fare degli scherzi.”
Dopo appena 5 minuti, i titoli dei giornali in un'edicola vicino alla cattedrale di Notre-Dame confermano quello che sembrava uno scherzo di un papà in cerca di attenzioni.
Non sto a spiegarvi come e perché, ma dopo interminabili momenti di panico, io e mia madre riusciamo finalmente a trovare il modo di rientrare a Roma. In un pullman con un gruppo di thailandesi, passando per la Svizzera, con soste pipì a Ginevra e Lugano. Tutto questo nella notte del mio ventiseiesimo compleanno.
Chi conosce un po' della mia vita, capirà l'ironia dell'annedoto.

Eyjafjallajökull me lo aveva detto e predetto: resterai a Parigi, passerai per la Svizzera, nella difficoltà ti divertirai da morire, mangerai baguette in un pullman, correrai nei corridoi del metrò Chatelet con una valigia in mano.
Un vulcano in Islanda aveva cercato di dirmelo in tutti modi: “Tu devi restare qua. E se proprio vorrai mettere il muso fuori da questa città che odora di Starbucks, fogne e croque monsieur, sarà per andare in Svizzera."
A poco sono valsi in giri in Corsica, i colloqui di lavoro a Roma, le candidature inviate in Portogallo. Temo davvero che all'epoca il vulcano avesse capito di me stessa molto di più di quanto non avessi potuto fare io.

Parigi non è una città perfetta. Piove 6 giorni su 7. Ogni volta che guardi per terra, per strada o nel metrò, vedi un topo. Nei bistrot si mangia raramente bene e io e miei amici combattiamo a fasi alterne con gastriti e disturbi intestinali. Le case sono piccole e vecchie. Gli stipendi sono sempre troppo bassi rispetto al costo medio della vita. I parigini sono rari e, quando ne conosci, non sono della specie più simpatica.
Il bello di Parigi, però, è che riesci, dopo ormai 3 anni che ci vivi, a sentirti allo stesso tempo sempre “parigina” e “straniera”.
Parigina perché conosci a memoria le sue 14 linee di metrò e, ad occhi chiusi, sapresti come andare da Saint-Germain-de-Près a Porte de la Villette con un solo cambio di linea, passando per Gare de l'Est. Parigina perché sai perfettamente dove andare se di giovedì sera cerchi un happy hour a base di birra con piattino di sauté di cozze gratis (e da qui potete compredere perché abbiamo innumerevoli problemi di gastrite, noi parigini acquisiti). Parigina perché sai perfettamente da quale parte della Senna stare in un incredibilmente assolato pomeriggio di metà marzo per godere per più tempo possibile del sole, prima che questi si vada a nascondere dietro il settimo piano di chissà quale palazzo haussmaniano.
Straniera perché, dopo 3 anni, ancora tutti ti chiedono in quale città in Italia sei nata (“Aaah Rome! C'est magnifique!”). Straniera perché ancora oggi tutti i francesi, subito dopo aver scoperto che sei italiana, ti chiedono la “vera ricetta” della carbonara. Straniera perché ogni mattina alle 9.30, la collega all'ingresso dell'open space dove lavori, ti saluta dicendoti “Hey, ciaò Laooooora Pausiniiii!”
Parigina e straniera allo stesso tempo perché scopri che riesci a gioire come una bambina davanti a una casa delle Barbie nuova di zecca perché la tua amica ha finalmente trovato un piccolo appartamento tutto per sé. Perché scopri un nuovo posto dove bere un ottimo cocktail a base di zenzero e rum. Perché quando a Parigi inizia ad arrivare la primavera “Mamma mia, c'est top quoi. Compro al volo una bottiglia di rosé e ci facciamo aperò sulla Senna, che ne dici?”

Eyjafjallajökull me lo aveva detto in un caldo e incredibilmente assolato pomeriggio di aprile: ti aspettano ancora tanti caldi e assolati pomeriggi a Parigi, non potrai scappare troppo facilmente. 


Women // Teachers

"E' da tanto che non scrivi, come mai?"  E' una domanda che mi è stata posta ogni tanto nell’ultimo paio di anni. Semplic...